Quel “Piccolo Paradiso” per bambini disabili in Sud Africa...

L’arcivescovo di Johannesburg nel bergamasco per ricordare i due coniugi fondatori di residenze dedicate ai piccoli malati. Per loro si avvia il primo passo sulla strada verso la beatificazione

Transitando da Milano - dove in serata ha celebrato con l’arcivescovo Mario Delpini - monsignor Buti Joseph Tlhagale, arcivescovo di Johannesburg, è ripartito lunedì per Roma dove farà tappa in questi giorni prima di rientrare in Sudafrica, insieme alla folta delegazione che ha visitato nelle scorse settimane Almenno San Bartolomeo, in Valle Imagna, in provincia di Bergamo. Celebrazioni, incontri, concerti, momenti di preghiera e riflessione (anche nel non lontano Santuario mariano della Cornabusa) e una “Memorial Lecture” tenuta nella chiesa gremita di San Nicola in Lemine, nel paese vicino (Almenno San Salvatore), hanno costellato il soggiorno del presule nel paese di Domitilla Rota che qui nacque cent’anni fa e qui trascorse i suoi primi trent’anni, prima di andare a vivere con il marito Daniel Hyams in Sud Africa, cominciando con lui a «generare in altro modo», dopo sei figli. Ma proviamo a raccontare la storia di questa coppia singolare.

Corre l’anno 1943 quando la bergamasca Domitilla Rota conosce il futuro marito, sudafricano, ha venticinque anni e da ragazzina ha sovente pensato di andare in Africa come missionaria di Dio. Sullo sfondo c’è la Seconda Guerra mondiale. Lui è un prigioniero che riesce a fuggire da un campo di concentramento vicino a Bergamo, il Campo n. 62, detto anche della “Grumellina”, dove in quegli anni sono reclusi migliaia di soldati stranieri (ciprioti, marocchini, sloveni, croati, serbi, montenegrini, britannici, neozelandesi e, appunto, sudafricani), ma anche militari italiani che dopo l’8 settembre non si sono arresi ai tedeschi, nonché civili italiani renitenti alla leva della Repubblica di Salò.

Ad Almenno, il fuggiasco Daniele Hyams - questo il suo nome - si nasconde sulle colline dell’Albenza dove trova non solo solidarietà e accoglienza. Domitilla e Daniel – che gode l’ospitalità clandestina della famiglia di lei - si scambiano promesse d’amore eterno. A guerra conclusa, il tempo di tornare a casa, terminare gli studi universitari, e, nel settembre 1947, ecco Daniel tornare lassù fra quei contadini in collina (un viaggio allora di due-tre settimane) per sposarla. Viene celebrato il matrimonio e i due partono insieme per il Sud Africa, destinazione la metropoli di Johannesburg dove costruire una nuova famiglia e una nuova vita. Così è stato.

Perché dopo aver cresciuto sei figli insieme a Daniel, Domitilla, spirito missionario mai spento, ha realizzato il suo sogno di «nuova maternità» facendosi madre per tanti bambini emarginati con grave disabilità mentale. È andata a prenderli nelle periferie dove durante l’Apartheid, vivevano segregate le persone di colore. Ha offerto sollievo a madri che non potevano o volevano occuparsene. Tutto questo insieme a Daniele, con una coerenza granitica, combattendo la cultura delle differenze che creano barriere tra le persone (bianchi e neri, sani e malati, intelligenti o meno…). Battaglie combattute senza mai una parola o un gesto contro qualcuno, come raccontava già anni fa Daniela Taiocchi nel suo avvincente libro “Vuoti a rendere”, edito dal Centro Studi Valle Imagna.

Tutto questo dopo un breve rientro in Italia per visitare la sua famiglia e scacciando la tentazione di restarci. Domitilla capì che doveva tornare in Africa perché lì – spiegava - c’era tanto da fare. Così nel ’67, dopo vent’anni in Sudafrica, a Edenvale, nella provincia di Gauteng, con il marito ha fondato “Little Eden”, il “Piccolo Paradiso”, una struttura tutta per loro, per quei piccoli angeli (così li chiamava), alla quale nel 1991 si sarebbe aggiunto a Bapsfontein, l’“Elvira Rota Village”, (dal nome della madre di Domitilla) inaugurato dal delegato apostolico arcivescovo Ambrose De Paoli. Due strutture che, con la stessa passione dei genitori, la stessa solida ispirazione cattolica, ed un’assistenza meno pioneristica, sono oggi sono portate avanti dai familiari e da persone che hanno conosciuto e amato Domitilla, «l’eroina del Sudafrica», come la definì, incontrandola, Nelson Mandela.

«Domitilla considerava le persone con disabilità mentali altrettanto preziose agli occhi del Signore – ha rimarcato monsignor Tlhagale – e con il diritto di essere aiutate a raggiungere il loro potenziale, nonostante le loro limitazioni. Con il supporto del marito Daniel, Domitilla è riuscita a fare tutto qualcosa di straordinario. Esempi di santità come questi potrebbero incoraggiare altre persone sulla strada della santità». Anche per questo a pochi anni dalla loro morte (Domitilla è mancata, novantaduenne, nel gennaio 2011, Daniel nel dicembre dell’anno successivo, novantenne), l’arcidiocesi sudafricana sta preparando i primi necessari passi per introdurre la causa di beatificazione presso la Congregazione per le Cause dei Santi.

«È il primo passo di un lungo processo che verificherà le premesse per la presentazione a Roma. Nelle prossime settimane sarà divulgata una petizione formale, in modo che chiunque abbia informazioni utili sui due coniugi possa aiutare l’arcivescovo Buti e il postulatore della causa», ha affermato Giuliano Rota Martir, della stessa famiglia di Domitilla, oggi presidente dell’Associazione “Domitilla Rota Hyams Onlus” che mantiene aperto il ponte Bergamo- Johannesburg sostenendo parte dell’impegno delle residenze di Edenvale e Bapsfontein, attualmente con oltre 300 ospiti affetti da disabilità mentale, tutti provenienti da situazioni di indigenza e abbandono.

Ad Almenno, prima in un’intervista rilasciata all’emittente parrocchiale Radio Lemine, poi prendendo la parola per la «lecture», nel ricordo di tanto bene operato da «due vite spese nel segno della gratitudine e della fede», l’arcivescovo di Johannesburg ha pure confermato l’impegno, nella recente sessione plenaria della Conferenza episcopale del Sud Africa, ad aprire la strada per la causa di beatificazione. «In Domitilla - ha detto - centinaia di bambini affetti da gravi disabilità hanno trovato una madre amorosa. Una donna che è stata incarnazione di abbondante amore verso “piccoli angeli”, innocenti e irreprensibili davanti a Dio. Prendersi cura dei più vulnerabili era la sua passione, la sua vocazione: era un modo di testimoniare la misericordia e l’amore, per camminare sulle orme di Dio. Accanto a lei, Daniel, uomo di convinzioni profonde, è stato il pilastro che sosteneva fermamente il progetto del “Piccolo Paradiso”. Insieme Domitilla e Daniele hanno scelto di lavorare con le famiglie più sfortunate e sono diventati le mani del Signore. La loro fede è stata seguita dalle opere che facevano tra i deboli e i bisognosi, seguendo l’esempio di Cristo».

Non a caso Domitilla desiderò - come è stato realizzato - che presso le due residenze fossero costruite due cappelle al fine di fornire assistenza spirituale a tutti gli ospiti e al personale; e, non a caso - come ancora Domitilla aveva tanto auspicato - ad accompagnarli ci sono oggi delle suore (sei indiane della Congregazione dell’Imitazione di Cristo). Con loro lo spirito di Domitilla e di Daniel resta vivo insieme a quei valori quali il rispetto, la sacralità della vita, l’amore ancorato alla cura, marchio di fabbrica per chi si si avvicina a “Little Eden”.

L’assistenza spirituale, insomma, riveste qui la stessa importanza di quella fisica (benché sovente ignorata in istituti analoghi). “Little Eden” crede fermamente che la spiritualità non dipenda dalle capacità mentali, ma sia presente in tutti gli individui. Detto con Domitilla: «Questi bambini dallo sguardo remoto hanno anime più belle del sole. Sono angeli. Sono come parafulmini ai quali dovremmo guardare con venerazione».

Marco Roncalli
La Stampa, 19/09/2018